“Per una vita, tra avventure e disavventure, ho fatto compagnia al mio desiderio di cinema. E ora, al giro di boa, mentre sto tornando a riva, penso a quanto sarebbe stata più noiosa una navigazione orfani l’uno dell’altro e così poco saggio se ci fossimo traditi”
Gabriele Lucci
È possibile realizzare il proprio progetto di vita restando nel luogo dove si è nati? Anche se si è cresciuti e si vive in un microcosmo, un piccolo paese o in provincia, ma lì si vuole restare per non strappare le radici? Tutto sommato se il mondo è oramai globale è altrettanto vero che lo si può intercettare da qualsiasi parte. Ne siamo sicuri? O forse è “fuori”, “altrove” che si può realizzare più facilmente un progetto, perché è indispensabile odorare il nuovo da vicino, viverlo, migrare non solo con la testa ma con tutto se stesso? Queste sono alcune delle domande che emergono dal racconto di Gabriele Lucci, il quale ci parla di una storia vissuta in prima persona e nata assecondando un desiderio personale ma che via via diviene storia collettiva. E nel ripercorrere questo lungo tragitto, segnato da difficoltà, talvolta ostracismi, ma anche da una tumultuosa crescita e larghi successi internazionali, l’autore alza lo sguardo sui cambiamenti sociali del Paese con le proprie contraddizioni e con la convulsa ricerca di un baricentro. In tal modo la narrazione trascende il dato personale per porsi come snodo dialettico tra localismi e globalizzazione. Una partita sempre viva, oggi più che mai attuale, dove atavici sovranismi si fronteggiano con aperture ancora cariche di dubbi e problemi. Dove il risultato rischia di concretizzarsi in una involuzione storica, dal momento che l’incapacità di governare un cambiamento genera impotenza e questa sospinge i popoli a fare un passo indietro, a cercare un riparo apparentemente più sicuro, optando così per una navigazione sottocosta piuttosto che veleggiare in alto mare per scoprire nuovi mondi.